Prima di parlare del gruppo, è necessario che faccia una precisazione: se i gruppi di cui ho parlato fossero in una classifica ordinale, i Coldplay occuperebbero una delle ultime posizioni; questo non significa che non mi piacciano, altrimenti non li avrei messi, ma se uno sta a guardare le vendite o, molto peggio, le recensioni della stampa musicale britannica (sempre loro…), sembrerebbe che ci troviamo davanti ad un totem della musica; questo, francamente, mi sembra un po’esagerato.
Comunque, all’inizio del nuovo millennio, quel britpop che tanto era riuscito a rivalutare la scena musicale britannica, aveva bisogno di una fisiologica rinfrescata; quello che accadde è che si formarono due filoni, tra l’altro neanche troppo distanti da loro: nel primo si decise di accelerare leggermente quello che ormai era diventato il “british sound”, nel secondo si “rabbuonì” leggermente il tutto; i Coldplay appartengono a questo secondo filone.
L’album di esordio, “Parachutes” si fa subito notare per la presenza di suoni molto introspettivi e riflessivi; l’aggressività tipica del rock è stata pressoché cancellata. Il disco è un contenitore di singoli di successo, adattati come manifesto della Gran Bretagna del nuovo millennio.
“A Rush of Blood to the Head” è l’album che segue: sembra essere stato scritto nello stesso momento dell’esordio; le linee guida sono assolutamente identiche, ed anche qui i singoli di successo si sprecano.
Venendo ai giorni nostri, i Coldplay ora sembrano iniziare a prediligere un suono leggermente più imbastardito dai canoni pop-rock moderni, come nel loro “Viva la Vida” del 2008, che considero il loro disco meglio riuscito. La band è in un momento in cui tutto quello che tocca diventa oro, e sembra aver trovato una formula magica grazie alla quale questo successo sarà duraturo.