L’anello di congiunzione tra hard rock ed heavy metal. Più esattamente, la carriera dei Judas Priest inizia con caratteristiche prettamente hard rock, si sviluppa abbracciando quella che sarà la New Wave of British Heavy Metal, e sfocia nel più classico e duro heavy metal.
Il gruppo iniziò a farsi notare col secondo lavoro, “Sad Wings of Destiny”: il disco, che lo considero il migliore della loro carriera, è assolutamente da considerarsi un capolavoro del genere hard rock; quello che spicca sono sicuramente le chitarre sparate a mille ed i riff sempre originali e graffianti, che hanno contraddistinguono quasi tutte le canzoni dell’album, riuscendo a renderlo estremamente vario e piacevole all’ascolto. Da segnalare due dei pezzi che rimarranno tra i più famosi della band: “The Ripper” e soprattutto “Victims of Changes”.
Il seguente “Sin After Sin” è l’eccezionale seguito; anche in questo caso le grandi protagoniste sono le chitarre. E’leggermente meno fantasioso del precedente, ma era quasi impossibile chiedere meglio.
Detto degli esordi hard rock, negli anni successivi la band prenderà, come già detto, la strada della New Wave of British Heavy Metal, in stile Iron Maiden; i risultati sono molto buoni anche per quanto riguarda le vendite, e tra i lavori di questo periodo meritano particolare attenzione “British Steel” del 1981, forse il loro album simbolo, lo sperimentale ed incredibilmente sottovalutato “Point of Entry” e “Screaming for Venegance”.
Nella prima metà degli anni ’80 il gruppo, diventato ormai di culto per i fans dei suoni più duri, accelera ulteriormente i ritmi ed alza ancora i suoni; il risultato è un altro album molto bello: “Defenders of the Faith”.
A questo punto la luce si spegne: il seguente “Turbo” risente molto di quel pop pervaso dal suono del sintetizzatore, tanto in voga nella metà degli anni ’80, e “Ram it Down” rappresenta un ritorno ai suoni di “Screaming for Venegance”. Questi album, però, vanno citati come due dei dischi più brutti ed inascoltabili mai prodotti.
Quando, dopo oltre 15 anni di onorata carriera sembrava essere calato definitivamente il sipario sui Judas Priest, nel 1990 esce, con un effetto stile bomba atomica, “Painkiller”. L’album è sicuramente il più violento della loro produzione, e si candida come uno dei lavori più aggressivi mai prodotti, facendo impallidire le nuove leve di giovani metallari. Merito di questo pandemonio va soprattutto al nuovo, eccezionale, batterista: Scott Travis, ed al suo assiduo uso della doppia cassa.
Alla rinascita del gruppo seguì quasi immediatamente l’abbandono del leader Rob Halford, che andò a fondare i Fight, sempre con Travis alla batteria; il gruppo in questione risulta essere un clone degli ultimi Judas Priest. Riguardo al gruppo, invece, il nuovo cantante Tim Owens non fu mai accettato dal pubblico metal (diciamoci la verità…), generalmente poco incline ai cambiamenti; in verità “Jugulator” non ha niente da invidiare al precedente e, se possibile, aumenta ancora la dose di violenza. Ad essere obiettivi le cose peggiorano sensibilmente col seguente “Demolition” e (stranamente…) Rob Halford tornò a grande richiesta ad essere leader del gruppo che, tuttora in attività, più invecchia meno si dimostra incline ai compromessi musicali, con il culmine di “Nostradamus” del 2008. Il meglio l’ha sicuramente già dato, ma ci sono gruppi invecchiati in maniera molto peggiore (non fatemi fare la lista delle band…).